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In questo confuso momento, passano sotto silenzio o, addirittura, in terzo piano le cose positive che hanno connotato Viterbo in un non lontanissimo passato. Le stesse prerogative raccontate nel 1959 da Federico Fellini che, appena acquistata una utilitaria, mettendosi a gironzolare per le strade del Lazio, scoprì Viterbo: «La mia avventura fantastica a Viterbo è di quasi dieci anni fa. Erano i primi anni che avevo la macchina, e la macchina più che un mezzo di locomozione voleva dire per me uno strumento di scoperte nel paesaggio, in Roma e soprattutto intorno a Roma. Il mio primo movimento è stato anzi in certo senso un evadere da Roma: la campagna intorno mi attirava enormemente, con tutto il suo potere così misterioso, pagano ma anche mistico, con la sua solennità che si fonde senza contrasti con la più assoluta aridità. E proprio in una di queste scorribande mi imbattei in Viterbo, che per me significava il ritorno alla provincia: le sue strade con la gente che cammina nell’aria intorpidita, anche quando c’è ombra, i negozi che espongono verso le vetrine oggetti e cose che non si trovano più in città, quell’aperto oziare che non è mai vuoto, è sempre pieno di echi dolcissimi, quel senso della città antichissima, borghese e aristocratica, così misteriosamente italiana… Io non ho mai visto i paesaggi da turista, dall’esterno: non ho mai voluto conoscere dei paesaggi, ho sempre cercato di riconoscerli. Penso che un paesaggio può, con una linea, un gesto di colline, salvare addirittura una persona, comunicargli un messaggio prezioso. Viterbo, così alle porte di Roma, è stata per me la città che traduceva in questa dolcezza di memorie, di provincia sincera, abbandonata, addirittura la grandezza del Lazio, il senso della vita intorno a Roma. Viterbo restituiva a un sapore d’infanzia addirittura la forza di Roma, che per me era stata solo la città della giovinezza. Viterbo mi faceva capire Roma e me la riconsegnava filtrata già nella memoria. A Viterbo ci sono le fontane, i vecchi alberghi con dentro le luci accese, nell’ombra, anche di giorno (una frescura meravigliosa d’estate) e le campane che battono come risuonassero dentro casa: tre cose che mi hanno sempre dato angoscia, ma anche dolcezza: come se mi mescolassero più intimamente a tutti gli echi che mi porto dentro. E che cosa si può desiderare di più da una città, che altro motivo si deve avere per amarla profondamente?».
Che immensa nostalgia! “…la gente che cammina nell’aria intorpidita…” è un frammento di vita che questa nostra città ha smarrito. Non perduto, quel frammento, l’ha solo smarrito; e a qualcuno spetta il compito di farglielo ritrovare. Perché un tempo la gente di Viterbo parlava per strada, parlava molto, e costruiva pazientemente la propria identità, come è facile costatare nelle magnifiche foto d’epoca scattate dal fotografo Sorrini. Persone e piazze, stracolme di macchine, ma soprattutto di gente comune. La sana tradizione contadina che portava le famiglie in città per commerciare, ma anche per incontrare parenti e amici e discutere di tutto: di politica, delle feste, di modernità, di conservazione dei monumenti, di spiritualità… Un’atmosfera lontana, “Un sogno di bellezza e di forza”, come la descrisse Viterbo Bonaventura Tecchi in uno saggio del 1942. Un sogno tradito, evidentemente, da quello che è accaduto dopo (da «La fune» del 12 ottobre u.s.).
Occorre che i viterbesi, almeno in parte, ritrovino la perduta felicità. Ecco la parola magica: la felicità, che si intravede in quelle foto di Sorrini di metà Novecento, negli anni Cinquanta. Tempi pieni di speranza e di fiducia, perché la felicità è un diritto [come testualmente scrive Benjamin Franklin nella “Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America” (4 luglio 1776) “…che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità…”]. Insomma, qualcuno ha detto che questa è una società sciapa e infelice, attraversata (anche a causa della crisi) da depressione e cinismo, accidia e narcisismo, come risulta da uno degli ultimi rapporti Censis. Non vorremmo che prevalessero, nemmeno per poco, i fenomeni di avidità, spreco e corruzione che sono figli delle devianze appena dette. Giammai. Eppure la postmoderna attitudine allo sperpero porta alla ricerca dissennata di consumismo. Una malattia perniciosa, mascherata da finto benessere.
I nostri padri vivevano con poco, avevano pochissimo e producevano di conseguenza. Certo, la generosità e la solidarietà (di cui gli italiani erano e sono, tuttora, i primi al mondo) rappresentavano il viatico alla felicità. Parafrasando Spinoza e rovesciando una sua intuizione: “…solo le persone felici sono virtuose…” (leggi: generose), è possibile affermare che è vero anche il contrario “…le persone generose hanno una chance in più per essere felici…” (tratto da: AA.VV. Felicità italiane, un campionario filosofico, Il Mulino, 2016 Bologna, pp. 14-15). Purtroppo sempre meno, alle viste, ciò accade, e Viterbo non sfugge a tali pericoli: indifferenza, abitudine all’isolamento, all’individualismo e alla autoreferenzialità. Mentre, viceversa, Viterbo può e deve mettere in campo la sua innata qualità all’ascolto, marginalizzando gli equivoci e l’assuefazione ad accontentarsi del minimo.
